giovedì 16 aprile 2009

IL SINDACATO AL TEMPO DELLA CRISI


La crisi economica che oggi attanaglia l’intero pianeta si presenta in Italia sotto la forma di una gravissima crisi industriale. La moltitudine che il 4 aprile ha Invaso Roma, rispondendo alla chiamata della Cgil, è parsa del tutto consapevole
della portata della crisi. Ora, dopo una così grande giornata di lotta, a quella moltitudine la Cgil deve coerenza.
Coerenza nell’iniziativa verso un Governo incerto e balbettante di fronte alla crisi del sistema industriale italiano e dei suoi settori, a partire dall’automobilistico;
coerenza nella fermezza con cui continuare a contrastare l’accordo separato sugli assetti contrattuali del 22 gennaio scorso, che della crisi rappresenta non la soluzione ma l’acritica presa d’atto.
Per queste ragioni, il congresso della Cgil, quale che sia la data del suo svolgimento, dovrà fare i conti con due priorità. Primo: l’impostazione e l’avvio di
una nuova politica industriale per incrementare la capacità delle imprese di produrre innovazioni di processo e di prodotto, a partire dai territori e dai
settori che possono risultare più utili per potenziare e aggiornare le capacità competitive del nostro apparato produttivo e del suo peculiare modello di specializzazione.
Secondo: il lancio di una nuova politica sociale che, attraverso strumenti fiscali e di riforma del welfare e degli ammortizzatori sociali, migliori - in termini sia di sicurezza che di reddito - le condizioni complessive dei lavoratori dipendenti, dei parasubordinati, dei lavoratori autonomi legati ai cicli produttivi, dei pensionati.
Se tutto questo è vero, è evidente che va affrontata anche una terza priorità: la ridefinizione delle regole nei rapporti tra sindacati e associazioni padronali.
L’accordo separato del 22 gennaio rischia di generare un sistema impazzito e senza regole, una giungla contrattuale in cui vige la legge del più forte.
Una situazione che non conviene mai ai lavoratori. Ma mi chiedo: una simile deriva può davvero convenire alle imprese, nel vivo di una gravissima crisi economica
e sociale? O non sarebbe meglio chiudere la fase dell’attacco contro la Cgil e scommettere sulla rivitalizzazione delle relazioni industriali coinvolgendo
tutti gli attori, attraverso una “win-win strategy”, dove non ci sono vincitori e sconfitti, ma obbiettivi da raggiungere insieme con una strategia comune e condivisa?
Dalla risposta dipende la direzione di marcia dell’uscita dalla crisi. La Cgil non accetterà quella neoconservatrice, con i lavoratori che pagano per tutti.
Soprattutto, con i lavoratori dell’industria chiamati a farsi carico del fardello più gravoso. Tracciarne un’altra è il compito impegnativo della Cgil, ma, credo,
anche di Cisl e Uil, a partire dai sindacati dell’industria.
FAUSTO DURANTE
Segretario nazionale FIOM-CGIL

giovedì 26 febbraio 2009

Presentazione Ordine del Giorno nei Comuni della Provincia di Lecce.

La Segreteria Provinciale della Sinistra Democratica,

- considerate le ultime vicende in politica internazionale che hanno visto impegnato il Presidente del Consiglio On. Silvio Berlusconi a sottoscrivere accordi per la produzione di energia da nucleare in Italia;

- considerato che un recente studio governativo per l’individuazione delle aree dove insediare le centrali nucleari e/o i siti di stoccaggio per le scorie radioattive prevede aree ricadenti nel territorio salentino;

CHIEDE

che nel prossimo Consiglio Comunale venga inserito il seguente Ordine del Giorno da sottoporre all’approvazione dello stesso.

Il Consiglio Comunale della città di_______________

Premesso che:

- Le argomentazioni sull’utilità di ricorrere all’energia atomica si scontrano con i tanti problemi irrisolti di questa tecnologia. Tra tutti la sicurezza delle centrali nucleari, la gestione dei rifiuti radioattivi, lo smantellamento degli impianti a fine ciclo, la loro protezione da eventuali attacchi terroristici, le riserve naturali sempre più scarse di uranio e i reali costi di tutto il processo di produzione elettronucleare, spesso falsati nelle valutazioni dall’intervento diretto e indiretto dei finanziamenti statali;

rilevato che:

- Sulla sicurezza degli impianti ancora oggi, a 23 anni dal terribile incidente di Černobyl' (26 aprile 1986), non esistono le garanzie necessarie per l’eliminazione del rischio di incidente nucleare e conseguente contaminazione radioattiva;

- Rimangono anche tutti i problemi legati alla contaminazione “ordinaria” delle centrali nucleari in seguito al rilascio di piccole dosi di radioattività durante il normale funzionamento dell’impianto a cui sono esposti i lavoratori e la popolazione che vive nei pressi;

- Non esistono poi ad oggi soluzioni concrete al problema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi derivanti dall’attività delle centrali e del loro smantellamento finale;

- Oltre al problema legato alla sistemazione definitiva delle scorie, esiste anche la necessità di rendere inutilizzabile il materiale fissile di scarto per la possibile costruzione di bombe, a maggior ragione in uno scenario mondiale in cui il terrorismo globale è una minaccia attualissima e purtroppo crescente;

considerati:

- La riconosciuta vocazione turistica del nostro territorio e l’alto livello di presenza antropica nello stesso;

DELIBERA

- Di dichiarare il Comune di Tricase “Comune denuclearizzato” e di vietare su tutto il territorio comunale sia l’installazione di centrali nucleari che la localizzazione di ogni altra attività legata alle centrali nucleari (ad esempio lo stoccaggio delle scorie o di altro materiale radioattivo), a tutela dei cittadini, dei turisti ospiti della città e delle generazioni future che vivranno su questo territorio;

- Di impegnare l’Amministrazione Comunale ad intraprendere al più presto iniziative significative e concrete, anche di sensibilizzazione, volte al risparmio e all’efficienza energetica e allo sviluppo delle fonti rinnovabili.

Lecce, 26.02.09

La Segreteria Provinciale

mercoledì 24 dicembre 2008

La crisi e i consumi

Pubblichiamo un articolo di Piero Bevilacqua comparso du Eddyburg e contenente alcune interessanti riflessioni sulla relazione tra la crisi attuale e l'iperconsumo.

E’ singolare. Da almeno 10 anni una vasta platea di economisti che ha voce e influenza pubblica non ha cessato un momento di ricordarci che i «consumi americani tirano la crescita». Sono gli americani, ci ricordavano, che alimentano lo sviluppo con il loro formidabile ritmo di consumo. Nessuno di costoro lasciava cadere, sul proprio entusiastico compiacimento, qualche ombra di perplessità. Eppure, oggi, tra tali commentatori non si trova un solo economista che voglia ricordarsi del nesso tra perseguimento della «crescita infinita» e iperconsumo americano. E tra questi e la crisi oggi in atto. Il tracollo del sistema bancario e le distruzioni in corso nell’economia reale vengono spiegate con poche categorie disciplinari ( basso tasso di sconto del dollaro, debito estero, ecc) e con la violazione delle regole, con l’imbroglio finanziario. Per il resto nulla da obiettare. E il consumo che tirava la crescita ? Non ha niente a che fare con il disastro attuale?

Cominciamo col rammentare – informazione di cui in genere gran parte degli economisti non sa che farsi – che gli Americani, il 5% della popolazione mondiale, con quel consumo che tirava divoravano e divorano circa il 30% delle risorse mondiali. E’ una vecchia storia imperiale che si ripete in altro modo. Al culmine della sua espansione territoriale, negli anni ’30 del ‘900, la Gran Bretagna controllava, a vario titolo, un numero così grande di colonie da coprire 1/4 delle terre emerse del globo, 125 volte la propria superficie. Un territorio di riserva indispensabile a sostegno della macchina produttiva e degli elevati standard di consumo dei cittadini britannici. Quasi sempre la prosperità dell’Occidente si è fondata su risorse che altri popoli non hanno potuto utilizzare. Anche oggi lo «stile di vita americano» si regge su un immenso territorio di riserva, sullo sfruttamento di risorse altrui, utilizzati grazie alla vasta influenza economica, politica e militare degli USA, e pagati con il dollaro, moneta di riserva e mezzo universale di pagamento.

Quel territorio oggi consiste anche nei salari da fame degli operai cinesi e del resto dei Paesi del Sud del mondo, nei bassi costi delle loro materie prime, che hanno consentito ai consumatori degli USA di divorare interi continenti di merci senza generare inflazione, rendendo possibile alle imprese americane di tenere bassi i propri salari, di realizzare profitti crescenti che si riversavano nel ribollente calderone della speculazione finanzaria. E’ così che i cittadini americani, operai e classe media, sono stati spinti al consumo malgrado la loro emarginazione sindacale e la stagnazione del loro reddito: tramite l’indebitamento. Che trovata! La corsa allo sviluppo illimitato ha spinto infatti a un mutamento storico del ruolo delle banche: nate per finanziare le imprese, esse si sono messe a prestar soldi direttamente ai cittadini, perché continuassero a consumare all’ infinito. L’indebitamento crescente delle famiglie è stato lo strumento « per continuare a crescere», come recita il mantra del conformismo economicistico universale. Già nel 2003 il debito insoluto dei cittadini americani era di 1 miliardo e 800 milioni di dollari. Gran risultato. Ma questa è la faccia nascosta del recente successo americano, quello glorificato da schiere infinite di economisti, pifferai che hanno cantato la gloria di questo capitalismo ad ogni angolo di strada. Una montagna di debiti delle famiglie. La costruzione del « maledetto imbroglio» finanziario con i mutui subprime, non è che l’estensione e il perfezionamento di un modello già in atto, esteso al settore immobiliare, che serviva peraltro ad alimentare la grande macchina dell’edilizia.

Quel consumo, dunque, si è retto, per almeno un quarto di secolo, sul progressivo indebitamento dei privati e sull’idrovora finanziaria a scala mondiale messa in piedi dall ‘impero americano. « Dati del Fondo monetario internazionale – ha ricordato di recente Silvano Andriani – mostrano come tutte le aree del pianeta, compresi i paesi emergenti, stiano finanziando con esportazioni di capitali gli Stati Uniti».

Rammento tutto ciò non tanto per sottolineare la scadente qualità predittiva delle scienze economiche oggi dominanti. Su questo terreno siamo tutti fallaci, anche se non tutti con pari responsabilità. Ma per richiamare aspetti che all’angustia disciplinare di questi saperi sfugge, per così dire, in radice. Il consumo, a quanto si sa, si realizza attraverso la dissipazione di risorse naturali. Ora, chiedo, non ci sono nessi tra l’iperconsumo americano e occidentale e i colpi subiti dalla natura negli ultimi decenni? Non è una lamentazione estetica, ci mancherebbe. Sotto l’assedio di una cultura economica da Paese povero, che guarda al mondo fisico con tale voracità predatoria, non pretendiamo tanto. Ma per natura qui si intende la perdita di immense superfici di terra per erosione e desertificazione, l’impoverimento biologico dei mari, l’abbattimento di foreste, l’inquinamento di fiumi e laghi, la dissipazione di risorse non rigenerabili, l’alterazione del clima, i danni inflitti a uomini, animali e cose. Per natura qui si intende economia, ricchezza, parte della quale addirittura misurabile in termini di PIL. Continueremo come prima? E ancora: non c’è nessun nesso tra l’iperconsumo occidentale, che vuol giungere sino alle lontane galassie, e la crescita degli indigenti nel mondo? Nessun legame tra il miliardo di affamati – gloria imperitura del capitalismo contemporaneo – recentemente censito dalla FAO e la politica di protezione agricola di USA e UE, il debito dei Paesi poveri, il dominio delle imprese occidentali nelle economie del Sud.? Continueremo come prima?

Ma oggi le risorse – su cui si fonda il consumo – appaiono sempre più limitate. Nuove frontiere, che l’Occidente aveva cancellato, si alzano a delimitarle e a difenderle. Anche i Paesi così detti in via di sviluppo ben presto pretenderanno che il loro stile di vita, come quello americano, « non sia negoziabile».E’ un mutamento di vasta portata. Ma il carattere finito del nostro Pianeta non muta, né cambia la sua natura di ecosistema complesso e vulnerabile. Perciò niente potrà più continuare come prima . E allora? Ci limitiamo a chiedere nuove regole, a invocare finalmente correttezza e un nuovo senso etico al capitalismo?

Il più grande errore politico che oggi si possa commettere è di credere che le soluzioni alla crisi presente- che non sia una semplice normalizzazione temporanea – possa venire da una cultura che la crisi ha generato e sostenuto con i suoi stessi unilaterali e fallaci fondamenti.

venerdì 12 dicembre 2008

Turismo in tempi di crisi

dal Corriere di oggi

Il pullman degli sciacalli

Lo spietato tour tra le abitazioni in vendita. Sotto gli occhi dei proprietari. Schiacciati dai debiti

Sulla parete alle sue spalle, Ronald Buckley ha appeso quattro cose che riassumono il suo codice genetico: la foto di Reagan campeggiante come un orologio con le lancette spezzate; un crocifisso, lievemente più in basso rispetto al presidente; lo scudetto della sua squadra di basket, e una scritta a caratteri cubitali: «Non può esserci una crisi la settimana prossima: ho già l’agenda piena di impegni». È di Henry Kissinger. Datata 1969, ovvero quando Ronald era un quasi trentenne tutt’altro che sfiorato dai turbamenti dell’epoca. Il signor Buckley pare un tipo che sa sempre da che parte stare. E siccome sta per guidarmi dentro a un safari molto particolare, sono contento che sia lui la mia guida spirituale. La caccia grossa si fa a bordo di un pulmino verdognolo tappezzato di slogan inneggianti affari mirabolanti. “Fantastic Foreclosure Repo Tours”(foreclosure è l’impossibilità di pagare un debito, repo è sinonimo di rimpossessarsi). Salgono una decina di persone, ma nei weekend i mezzi sono due, e gli iscritti all’escursione anche cinquanta.

I vetri sono lievemente oscurati, perché un briciolo di discrezione non guasta. La mappa del tesoro è tra le mani di Ronald che si aggiusta l’anello grande come una nocciola, prima di spiegare l’obiettivo della pattuglia: «Vedremo una quindicina di proprietà in due ore e mezzo. Saremo di ritorno per pranzo. Mi consegnerete la scheda col vostro livello di gradimento.Vi preghiamo di seguire attentamente le indicazioni della vostra guida. Sono a disposizione per qualsiasi domanda». Un pensionato chiede se è prevista una sosta caffè. Ronald sorride paterno: «Of course». Si parte. L’avventura può cominciare. C’è una crisi. Profonda, lancinante. I dati ufficiali confermano che a fine 2008 in America un milione e mezzo di proprietari dovranno abbandonare casa per insolvenza. Schiacciati dal mutuo. Circa la metà di queste proprietà torna alle banche che hanno urgenza di rimetterle sul mercato. Ronald Buckley dall’aprile scorso è una sorta di “facilitatore”. È colui che va in giro a mostrare le case disponibili. Una specie di entomologo a spasso in un zoo peculiare. La gente fa domande specifiche («Quanto consuma di aria condizionata? », «Dov’è lo Starbucks più vicino?») e lui risponde con dovizia di particolari ed entusiasmo. Perché c’è crisi, ma lui ha l’agenda piena di impegni. «Ci sono migliaia di persone là fuori che domani faranno l’affare della loro vita» declama impostando la voce. Ce ne sono altrettante, oltre i vetri fumé, che ci guardano come sciacalli assetati di sangue. E un po’ lo siamo».

Qualcuno li chiama gli “Heartless Tours”, i tour senza cuore. Frugano tra le macerie di chi ha perso tutto. Ci sono case in cui le persone non hanno ancora finito il trasloco. A North Miami, una villetta cui Ronald assegna quattro stelle, ha ancora sul patio una fila di scatoloni pieni di effetti personali. Una vicina ci vede arrivare e si chiude in casa dopo aver fatto una smorfia inequivocabile. Sul bus una coppia di mezza età domanda: «Potremmo costruire una jacuzzi in giardino?». «Of course» sentenzia il vecchio Ron. Il fenomeno si allarga con velocità direttamente proporzionale al crollo verticale del mercato immobiliare. È un mercato parallelo anabolizzato, surreale per certi versi. I primi a cogliere l’attimo sono stati in California. Poi è toccato ad Arizona, Texas, Michigan e naturalmente Florida. I prezzi sono più che ghiotti: per una casa che un anno fa aveva un valore di mercato attorno ai 200 mila dollari, ora ne bastano 75 mila. Quando Ronald ci mostra un elegante appartamento con tre stanze da letto, in un lussuoso edificio con richiami all’Italia, spiega che la proprietà ha appena cinque anni e che costa solo 490 mila dollari. Poi fa un sorrisetto e si corregge: «Costava così all’acquisto nel 2006, ora la trattiamo per circa 272 mila».

L’idea del “Foreclosure Repo Tour” è venuta a un immobiliarista della California. Si chiama Nick Dias ed è il ras della Central Valley, ampia area residenziale travolta dalla crisi. Lo chiamo per chiedere lumi: «Non posso fare nulla per la gente che ha perso la casa. Non li conosco. Ma posso essere utile a mantenere il mercato vivo e a combinare buoni affari per chi ne voglia approfittare. È un bene per la comunità». Ogni weekend il suo autobus dotato di tutti i comfort fa il tutto esaurito. «It’s a lot of fun» aggiunge. È un sacco bello. Dipende da come la si vuole guardare. E mi anticipa che la rete Tlc sta varando il primo reality sul genere: hanno girato le prime puntate a Chula Vista e Stockton, sempre in California, e andranno in onda a febbraio. Il suo sito illustra volti di gente felice. Coppie giovani o pensionati che hanno trovato la casa dei sogni a un terzo del prezzo. Un po’ come sopravvivere con il cuore di un donatore. Il pensionato che chiedeva del caffè mi dice che lui alla gente sfrattata ci pensa e gli dispiace: «Ma se compro la loro casa, aiuto il sistema a non crollare del tutto. Il quartiere non soffrirà e la banca nemmeno. E magari quelle persone troveranno la loro chance altrove». Magari. Ronald annuncia che entro fine settimana arriveranno altre 40 proprietà sulla sua scrivania. Incoraggia i clienti a compilare attentamente il formulario con ogni dettaglio relativo ai loro desideri, per essere accompagnati nel tour più adeguato (prezzo, dimensione, amenità, ecc.). L’ultimo stop è una casa bassa con giardino e patio interno. Ha l’aspetto decadente e il prato maculato di buche e cartacce. Entriamo con un irragionevole sospetto. Ronald spiega che la proprietà richiede qualche restauro, ma che il prezzo invita a una profonda riflessione. A terra nell’ingresso c’è la tastiera di un computer, il relitto di un tostapane, un materassino e qualche scheletro di lattina di birra. Le porta principale è sfondata da quello che sembrerebbe un calcio. Alcune finestre sono in frantumi. Ronald si fa serio: «Per qualcuno andarsene non è una bella esperienza». Già.

giovedì 11 dicembre 2008

Dal welfare alla carità

Scoprire che esiste la povertà è importante e cercare di arginarla è fondamentale. Ma, come ci sono modi diversi di spiegare l’indigenza, ci sono metodologie di intervento politiche diverse, sia pure all’interno di uno stesso sistema che stenograficamente si può definire capitalistico.
Figlio della filosofia del Welfare, questo sistema potrebbe cercare di rafforzare i meccanismi di uno Stato sociale attraverso apposite politiche pubbliche di ridefinizione strutturale della ricchezza a favore dei meno abbienti. Oppure, in opposizione a tale filosofia e perseguendo l’ideologia liberistica, può pensare di attenuare (non certo di risolvere) il problema, smantellando tutto ciò che rimane del Welfare e santificando, con la leggerezza dell’elemosina, l’esistenza della povertà, o meglio dei poveri.
La prima ipotesi prefigura, infatti, una prospettiva di manovra contro la povertà; la seconda, invero, ne prospetta una contro i poveri. Alla prima si possono annoverare anche gli studi di analisi delle politiche pubbliche sviluppatisi in America negli anni ’60 per seguire l’esito di vari programmi di politica sociale (appunto gli antipoverty programs), mentre alla seconda si può abbinare l’azione del governo italiano in carica che scopre la povertà.
Infatti il bonus alle famiglie e soprattutto la social card rappresentano forme minimali di una caritas che tende a legittimare poi tutto il resto, indicando in maniera quanto mai etichettante la fascia più povera della popolazione, in una sorta di teoria del labelling che sappiamo quanta “fortuna” abbia avuto in criminologia e nella sociologia della devianza.
Definita in vario modo, la social card, oltre a ricordare qualcosa che pensavamo tramontato nell’oblio di un torbido passato, è stata efficacemente definita da C. Saraceno come un “embrione di reddito minimo”, anche se non si capisce perché venga limitata solamente agli anziani e alle famiglie con bambini al di sotto dei tre anni, perché certo non sono gli unici ad aver bisogno di un aiuto economico. Altra cosa sarebbe una politica capace di garantire un reddito minimo per i bisognosi, nonché una indennità di disoccupazione e se la social card, carente come si è visto, nel metodo e nel merito, esiste in altri Paesi, bisogna pur sempre ricordare che nell’Europa a 15 solo l’Italia e la Grecia non prevedono l’indennità di disoccupazione.
Ancora una volta le risorse maggiori vengono destinate altrove e l’elemosina istituzionalizzata non fa altro che contribuire al martellamento continuo sul nostro Welfare. Le politiche pubbliche tendevano attraverso il diritto uguale a smussare le disuguaglianze e a creare uguaglianze sostanziali. La social card, invece, stressa le disuguaglianze, le etichetta, le ipostatizza. Essa vuole diventare strumento di implosione dei conflitti e garanzia di controllo sociale così come era nella vecchia impostazione delle poor laws inglesi di ottocentesca memoria.
Perciò senza uguaglianza, come ha recentemente detto G. Zagrebelsky, la società diventa gerarchia e i diritti cambiano natura: “per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità”.