mercoledì 24 dicembre 2008

La crisi e i consumi

Pubblichiamo un articolo di Piero Bevilacqua comparso du Eddyburg e contenente alcune interessanti riflessioni sulla relazione tra la crisi attuale e l'iperconsumo.

E’ singolare. Da almeno 10 anni una vasta platea di economisti che ha voce e influenza pubblica non ha cessato un momento di ricordarci che i «consumi americani tirano la crescita». Sono gli americani, ci ricordavano, che alimentano lo sviluppo con il loro formidabile ritmo di consumo. Nessuno di costoro lasciava cadere, sul proprio entusiastico compiacimento, qualche ombra di perplessità. Eppure, oggi, tra tali commentatori non si trova un solo economista che voglia ricordarsi del nesso tra perseguimento della «crescita infinita» e iperconsumo americano. E tra questi e la crisi oggi in atto. Il tracollo del sistema bancario e le distruzioni in corso nell’economia reale vengono spiegate con poche categorie disciplinari ( basso tasso di sconto del dollaro, debito estero, ecc) e con la violazione delle regole, con l’imbroglio finanziario. Per il resto nulla da obiettare. E il consumo che tirava la crescita ? Non ha niente a che fare con il disastro attuale?

Cominciamo col rammentare – informazione di cui in genere gran parte degli economisti non sa che farsi – che gli Americani, il 5% della popolazione mondiale, con quel consumo che tirava divoravano e divorano circa il 30% delle risorse mondiali. E’ una vecchia storia imperiale che si ripete in altro modo. Al culmine della sua espansione territoriale, negli anni ’30 del ‘900, la Gran Bretagna controllava, a vario titolo, un numero così grande di colonie da coprire 1/4 delle terre emerse del globo, 125 volte la propria superficie. Un territorio di riserva indispensabile a sostegno della macchina produttiva e degli elevati standard di consumo dei cittadini britannici. Quasi sempre la prosperità dell’Occidente si è fondata su risorse che altri popoli non hanno potuto utilizzare. Anche oggi lo «stile di vita americano» si regge su un immenso territorio di riserva, sullo sfruttamento di risorse altrui, utilizzati grazie alla vasta influenza economica, politica e militare degli USA, e pagati con il dollaro, moneta di riserva e mezzo universale di pagamento.

Quel territorio oggi consiste anche nei salari da fame degli operai cinesi e del resto dei Paesi del Sud del mondo, nei bassi costi delle loro materie prime, che hanno consentito ai consumatori degli USA di divorare interi continenti di merci senza generare inflazione, rendendo possibile alle imprese americane di tenere bassi i propri salari, di realizzare profitti crescenti che si riversavano nel ribollente calderone della speculazione finanzaria. E’ così che i cittadini americani, operai e classe media, sono stati spinti al consumo malgrado la loro emarginazione sindacale e la stagnazione del loro reddito: tramite l’indebitamento. Che trovata! La corsa allo sviluppo illimitato ha spinto infatti a un mutamento storico del ruolo delle banche: nate per finanziare le imprese, esse si sono messe a prestar soldi direttamente ai cittadini, perché continuassero a consumare all’ infinito. L’indebitamento crescente delle famiglie è stato lo strumento « per continuare a crescere», come recita il mantra del conformismo economicistico universale. Già nel 2003 il debito insoluto dei cittadini americani era di 1 miliardo e 800 milioni di dollari. Gran risultato. Ma questa è la faccia nascosta del recente successo americano, quello glorificato da schiere infinite di economisti, pifferai che hanno cantato la gloria di questo capitalismo ad ogni angolo di strada. Una montagna di debiti delle famiglie. La costruzione del « maledetto imbroglio» finanziario con i mutui subprime, non è che l’estensione e il perfezionamento di un modello già in atto, esteso al settore immobiliare, che serviva peraltro ad alimentare la grande macchina dell’edilizia.

Quel consumo, dunque, si è retto, per almeno un quarto di secolo, sul progressivo indebitamento dei privati e sull’idrovora finanziaria a scala mondiale messa in piedi dall ‘impero americano. « Dati del Fondo monetario internazionale – ha ricordato di recente Silvano Andriani – mostrano come tutte le aree del pianeta, compresi i paesi emergenti, stiano finanziando con esportazioni di capitali gli Stati Uniti».

Rammento tutto ciò non tanto per sottolineare la scadente qualità predittiva delle scienze economiche oggi dominanti. Su questo terreno siamo tutti fallaci, anche se non tutti con pari responsabilità. Ma per richiamare aspetti che all’angustia disciplinare di questi saperi sfugge, per così dire, in radice. Il consumo, a quanto si sa, si realizza attraverso la dissipazione di risorse naturali. Ora, chiedo, non ci sono nessi tra l’iperconsumo americano e occidentale e i colpi subiti dalla natura negli ultimi decenni? Non è una lamentazione estetica, ci mancherebbe. Sotto l’assedio di una cultura economica da Paese povero, che guarda al mondo fisico con tale voracità predatoria, non pretendiamo tanto. Ma per natura qui si intende la perdita di immense superfici di terra per erosione e desertificazione, l’impoverimento biologico dei mari, l’abbattimento di foreste, l’inquinamento di fiumi e laghi, la dissipazione di risorse non rigenerabili, l’alterazione del clima, i danni inflitti a uomini, animali e cose. Per natura qui si intende economia, ricchezza, parte della quale addirittura misurabile in termini di PIL. Continueremo come prima? E ancora: non c’è nessun nesso tra l’iperconsumo occidentale, che vuol giungere sino alle lontane galassie, e la crescita degli indigenti nel mondo? Nessun legame tra il miliardo di affamati – gloria imperitura del capitalismo contemporaneo – recentemente censito dalla FAO e la politica di protezione agricola di USA e UE, il debito dei Paesi poveri, il dominio delle imprese occidentali nelle economie del Sud.? Continueremo come prima?

Ma oggi le risorse – su cui si fonda il consumo – appaiono sempre più limitate. Nuove frontiere, che l’Occidente aveva cancellato, si alzano a delimitarle e a difenderle. Anche i Paesi così detti in via di sviluppo ben presto pretenderanno che il loro stile di vita, come quello americano, « non sia negoziabile».E’ un mutamento di vasta portata. Ma il carattere finito del nostro Pianeta non muta, né cambia la sua natura di ecosistema complesso e vulnerabile. Perciò niente potrà più continuare come prima . E allora? Ci limitiamo a chiedere nuove regole, a invocare finalmente correttezza e un nuovo senso etico al capitalismo?

Il più grande errore politico che oggi si possa commettere è di credere che le soluzioni alla crisi presente- che non sia una semplice normalizzazione temporanea – possa venire da una cultura che la crisi ha generato e sostenuto con i suoi stessi unilaterali e fallaci fondamenti.

venerdì 12 dicembre 2008

Turismo in tempi di crisi

dal Corriere di oggi

Il pullman degli sciacalli

Lo spietato tour tra le abitazioni in vendita. Sotto gli occhi dei proprietari. Schiacciati dai debiti

Sulla parete alle sue spalle, Ronald Buckley ha appeso quattro cose che riassumono il suo codice genetico: la foto di Reagan campeggiante come un orologio con le lancette spezzate; un crocifisso, lievemente più in basso rispetto al presidente; lo scudetto della sua squadra di basket, e una scritta a caratteri cubitali: «Non può esserci una crisi la settimana prossima: ho già l’agenda piena di impegni». È di Henry Kissinger. Datata 1969, ovvero quando Ronald era un quasi trentenne tutt’altro che sfiorato dai turbamenti dell’epoca. Il signor Buckley pare un tipo che sa sempre da che parte stare. E siccome sta per guidarmi dentro a un safari molto particolare, sono contento che sia lui la mia guida spirituale. La caccia grossa si fa a bordo di un pulmino verdognolo tappezzato di slogan inneggianti affari mirabolanti. “Fantastic Foreclosure Repo Tours”(foreclosure è l’impossibilità di pagare un debito, repo è sinonimo di rimpossessarsi). Salgono una decina di persone, ma nei weekend i mezzi sono due, e gli iscritti all’escursione anche cinquanta.

I vetri sono lievemente oscurati, perché un briciolo di discrezione non guasta. La mappa del tesoro è tra le mani di Ronald che si aggiusta l’anello grande come una nocciola, prima di spiegare l’obiettivo della pattuglia: «Vedremo una quindicina di proprietà in due ore e mezzo. Saremo di ritorno per pranzo. Mi consegnerete la scheda col vostro livello di gradimento.Vi preghiamo di seguire attentamente le indicazioni della vostra guida. Sono a disposizione per qualsiasi domanda». Un pensionato chiede se è prevista una sosta caffè. Ronald sorride paterno: «Of course». Si parte. L’avventura può cominciare. C’è una crisi. Profonda, lancinante. I dati ufficiali confermano che a fine 2008 in America un milione e mezzo di proprietari dovranno abbandonare casa per insolvenza. Schiacciati dal mutuo. Circa la metà di queste proprietà torna alle banche che hanno urgenza di rimetterle sul mercato. Ronald Buckley dall’aprile scorso è una sorta di “facilitatore”. È colui che va in giro a mostrare le case disponibili. Una specie di entomologo a spasso in un zoo peculiare. La gente fa domande specifiche («Quanto consuma di aria condizionata? », «Dov’è lo Starbucks più vicino?») e lui risponde con dovizia di particolari ed entusiasmo. Perché c’è crisi, ma lui ha l’agenda piena di impegni. «Ci sono migliaia di persone là fuori che domani faranno l’affare della loro vita» declama impostando la voce. Ce ne sono altrettante, oltre i vetri fumé, che ci guardano come sciacalli assetati di sangue. E un po’ lo siamo».

Qualcuno li chiama gli “Heartless Tours”, i tour senza cuore. Frugano tra le macerie di chi ha perso tutto. Ci sono case in cui le persone non hanno ancora finito il trasloco. A North Miami, una villetta cui Ronald assegna quattro stelle, ha ancora sul patio una fila di scatoloni pieni di effetti personali. Una vicina ci vede arrivare e si chiude in casa dopo aver fatto una smorfia inequivocabile. Sul bus una coppia di mezza età domanda: «Potremmo costruire una jacuzzi in giardino?». «Of course» sentenzia il vecchio Ron. Il fenomeno si allarga con velocità direttamente proporzionale al crollo verticale del mercato immobiliare. È un mercato parallelo anabolizzato, surreale per certi versi. I primi a cogliere l’attimo sono stati in California. Poi è toccato ad Arizona, Texas, Michigan e naturalmente Florida. I prezzi sono più che ghiotti: per una casa che un anno fa aveva un valore di mercato attorno ai 200 mila dollari, ora ne bastano 75 mila. Quando Ronald ci mostra un elegante appartamento con tre stanze da letto, in un lussuoso edificio con richiami all’Italia, spiega che la proprietà ha appena cinque anni e che costa solo 490 mila dollari. Poi fa un sorrisetto e si corregge: «Costava così all’acquisto nel 2006, ora la trattiamo per circa 272 mila».

L’idea del “Foreclosure Repo Tour” è venuta a un immobiliarista della California. Si chiama Nick Dias ed è il ras della Central Valley, ampia area residenziale travolta dalla crisi. Lo chiamo per chiedere lumi: «Non posso fare nulla per la gente che ha perso la casa. Non li conosco. Ma posso essere utile a mantenere il mercato vivo e a combinare buoni affari per chi ne voglia approfittare. È un bene per la comunità». Ogni weekend il suo autobus dotato di tutti i comfort fa il tutto esaurito. «It’s a lot of fun» aggiunge. È un sacco bello. Dipende da come la si vuole guardare. E mi anticipa che la rete Tlc sta varando il primo reality sul genere: hanno girato le prime puntate a Chula Vista e Stockton, sempre in California, e andranno in onda a febbraio. Il suo sito illustra volti di gente felice. Coppie giovani o pensionati che hanno trovato la casa dei sogni a un terzo del prezzo. Un po’ come sopravvivere con il cuore di un donatore. Il pensionato che chiedeva del caffè mi dice che lui alla gente sfrattata ci pensa e gli dispiace: «Ma se compro la loro casa, aiuto il sistema a non crollare del tutto. Il quartiere non soffrirà e la banca nemmeno. E magari quelle persone troveranno la loro chance altrove». Magari. Ronald annuncia che entro fine settimana arriveranno altre 40 proprietà sulla sua scrivania. Incoraggia i clienti a compilare attentamente il formulario con ogni dettaglio relativo ai loro desideri, per essere accompagnati nel tour più adeguato (prezzo, dimensione, amenità, ecc.). L’ultimo stop è una casa bassa con giardino e patio interno. Ha l’aspetto decadente e il prato maculato di buche e cartacce. Entriamo con un irragionevole sospetto. Ronald spiega che la proprietà richiede qualche restauro, ma che il prezzo invita a una profonda riflessione. A terra nell’ingresso c’è la tastiera di un computer, il relitto di un tostapane, un materassino e qualche scheletro di lattina di birra. Le porta principale è sfondata da quello che sembrerebbe un calcio. Alcune finestre sono in frantumi. Ronald si fa serio: «Per qualcuno andarsene non è una bella esperienza». Già.

giovedì 11 dicembre 2008

Dal welfare alla carità

Scoprire che esiste la povertà è importante e cercare di arginarla è fondamentale. Ma, come ci sono modi diversi di spiegare l’indigenza, ci sono metodologie di intervento politiche diverse, sia pure all’interno di uno stesso sistema che stenograficamente si può definire capitalistico.
Figlio della filosofia del Welfare, questo sistema potrebbe cercare di rafforzare i meccanismi di uno Stato sociale attraverso apposite politiche pubbliche di ridefinizione strutturale della ricchezza a favore dei meno abbienti. Oppure, in opposizione a tale filosofia e perseguendo l’ideologia liberistica, può pensare di attenuare (non certo di risolvere) il problema, smantellando tutto ciò che rimane del Welfare e santificando, con la leggerezza dell’elemosina, l’esistenza della povertà, o meglio dei poveri.
La prima ipotesi prefigura, infatti, una prospettiva di manovra contro la povertà; la seconda, invero, ne prospetta una contro i poveri. Alla prima si possono annoverare anche gli studi di analisi delle politiche pubbliche sviluppatisi in America negli anni ’60 per seguire l’esito di vari programmi di politica sociale (appunto gli antipoverty programs), mentre alla seconda si può abbinare l’azione del governo italiano in carica che scopre la povertà.
Infatti il bonus alle famiglie e soprattutto la social card rappresentano forme minimali di una caritas che tende a legittimare poi tutto il resto, indicando in maniera quanto mai etichettante la fascia più povera della popolazione, in una sorta di teoria del labelling che sappiamo quanta “fortuna” abbia avuto in criminologia e nella sociologia della devianza.
Definita in vario modo, la social card, oltre a ricordare qualcosa che pensavamo tramontato nell’oblio di un torbido passato, è stata efficacemente definita da C. Saraceno come un “embrione di reddito minimo”, anche se non si capisce perché venga limitata solamente agli anziani e alle famiglie con bambini al di sotto dei tre anni, perché certo non sono gli unici ad aver bisogno di un aiuto economico. Altra cosa sarebbe una politica capace di garantire un reddito minimo per i bisognosi, nonché una indennità di disoccupazione e se la social card, carente come si è visto, nel metodo e nel merito, esiste in altri Paesi, bisogna pur sempre ricordare che nell’Europa a 15 solo l’Italia e la Grecia non prevedono l’indennità di disoccupazione.
Ancora una volta le risorse maggiori vengono destinate altrove e l’elemosina istituzionalizzata non fa altro che contribuire al martellamento continuo sul nostro Welfare. Le politiche pubbliche tendevano attraverso il diritto uguale a smussare le disuguaglianze e a creare uguaglianze sostanziali. La social card, invece, stressa le disuguaglianze, le etichetta, le ipostatizza. Essa vuole diventare strumento di implosione dei conflitti e garanzia di controllo sociale così come era nella vecchia impostazione delle poor laws inglesi di ottocentesca memoria.
Perciò senza uguaglianza, come ha recentemente detto G. Zagrebelsky, la società diventa gerarchia e i diritti cambiano natura: “per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità”.

domenica 7 dicembre 2008

Un esempio.

Ieri sera i compagni di Salve hanno inaugurato la loro nuova sezione. E' stata una serata piacevole, ed è stato piacevole vedere come persone con radici nelle diverse anime della Sinistra, possano lavorare insieme se solo c'è la voglia di incidere nel sociale. Anche di questi piccoli segni è intrisa la Storia.
Da parte nostra esprimiamo i nostri auguri ai compagni di Salve, e l'auspicio che anche a Tricase e nel resto del Paese si giunga al più presto ad esperienze simili.

sabato 6 dicembre 2008

Un anno fa.

Niente sarà più come prima, si diceva e si prometteva il 6 dicembre di un anno fa. Questa volta il cambio di marcia è necessario, si pensava e si proclamava, perché sette operai carbonizzati mentre lavorano non sono un tributo che può considerarsi normale, incidente di percorso del turbo-capitalismo che deve avanzare ad ogni costo. Anche quello del sacrificio umano. Questa volta, si ragionava e si sosteneva pubblicamente, bisogna voltar pagina davvero, perché nella tragedia della linea 5 della Thyssen Krupp di viale Regina Margherita, a Torino, si è reso visibile a tutti che la classe lavoratrice esiste e rischia di morire ogni giorno mentre svolge onestamente il suo lavoro. Del resto, i volti inceneriti dei sopravvissuti, le lacrime dei familiari, la consistenza dell'incidente, l'atteggiamento reticente dell'azienda tedesca: tutto rendeva impossibile proseguire come sempre, come prima della notte fra il 5 e il 6 dicembre del 2007. Dunque tutto lasciava credere che il cambiamento fosse possibile. Ma la memoria, che pure non si può asportare, in questo paese dura lo spazio di un funerale e di qualche strumentalizzazione politica, il tempo di un intervento di qualche esponente di partito, magari anche sentito e sincero, e di qualche strillato "ora basta". Dopo un anno, infatti, non molto è cambiato nel mondo del lavoro sul fronte sicurezza. Il contatore degli omicidi bianchi prosegue inarrestabile, morto dopo morto, con una media quotidiana di circa 3,86 lavoratori. Non c'è giornata che dal sud al nord di questo paese non arrivi la notizia di un caduto sul campo dell'occupazione: agricoltori schiacciati dal trattore, muratori scivolati da un ponteggio, operai feriti da una pressa. Tanti modi per morire, tutti durante un'unica impresa, quella di lavorare.

Eppure in questo stagnare gattopardesco qualcosa si è mosso, qualcosa è cambiato. La giustizia ha fatto il suo corso, almeno fino ad oggi, in modo celere e preciso. Lo si deve all'attività dei pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso, i quali hanno studiato, raccolto materiale e testimonianze, producendo duecentomila pagine di documentazione sistemate in tredici faldoni. La base su cui hanno strutturato la loro accusa riuscendo a portare sul banco degli imputati l'ad dell'azienda Herald Espenhahm, oltre ai vertici italiani del colosso dell'acciaio tedesco, cioè Giuseppe Salerno, Marco Pucci, Daniele Moroni e Cosimo Cafueri. Come deciso il 17 novembre dal gup di Torino Francesco Gianfrotta saranno processati dalla metà di gennaio in Corte d'Assise, di fronte ad una giuria sia togata che popolare. Caso unico nella storia della giustizia italiana, almeno sul fronte degli incidenti sul lavoro, saranno giudicati per omicidio volontario l'ad Espenhahm, per omissione volontaria di cautele e omicidio colposo con colpa cosciente le altre teste dell'azienda. Non varrà più l'abili del non sapevo, non ero a conoscenza, perché si fa spazio e strada il principio che la morte sul lavoro non può essere considerata una fatalità, quanto il frutto conseguente e avvelenato di una disattenzione, consapevole e imputabile, verso l'applicazione delle misure anti infortunistiche. Gli estintori della linea 5 di viale Regina Margherita, infatti, non erano carichi quella notte. E da tempo lo stabilimento torinese, in vista della chiusura prevista questa estate, non era più oggetto di investimento e ammodernamento in merito alle misure di sicurezza. Dismesso, dal punto di vista delle strutture ma anche del numero dei lavoratori impiegati, il polo di Torino continuava a produrre grazie all'intensa attività di straordinario, da sempre causa della crescita esponenziale del rischio. I dipendenti erano passati da 380 a 270, mentre le mansioni venivano ricombinate e mancavano diverse figure professionali. I dirigenti sapevano qual era la situazione e non hanno fatto nulla per evitare che ne scaturisse la tragedia che si è verificata. Come dimostrato dall'inchiesta, le visite dell'Asl e degli ispettori Spresal erano avvisate preventivamente, tanto che sul caso è aperta una indagine collaterale. Non solo si sapeva, dunque, ma si tentava di occultare.

Ora c'è un processo che partirà il 15 gennaio, 46 operai costituiti parte civile insieme al sindacato e alle amministrazioni locali. C'è anche stato, però, il tentativo -in parte riuscito- di dare una buona uscita ai dipendenti in cambio della rinuncia a costituirsi parte civile (una clausola inserita negli accordi di licenziamento prima che avvenisse il rogo che ha provocato l'amarezza di diversi lavoratori verso il sindacato). C'è un'associazione, "Legami d'acciaio", che lotta per avere giustizia e diffondere la cultura della sicurezza: è organizzata dai compagni sopravvissuti che non si arrendono e non trovano pace per quanto accaduto, per una tragedia che li ha sfiorati e, in alcuni casi, risparmiati per una casualità. Tanti documentari, da quello della Comencini a Segre, tanti libri, da Novelli a Pagliarini, tante inchieste mediatiche da parte di varie testate. C'è un settore del Parco Carrara che, ha promesso il sindaco Chiamparino, verrà dedicato a Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Giuseppe Demasi, Rosario Rodinò. E c'è soprattutto un tentativo in atto da parte del governo di erodere e sterilizzare, pezzettino dopo pezzettino, quel Testo Unico sulla sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro che si è contraddistinto come una delle pagine migliori della breve legislatura del centrosinistra. Circola già, stando a quanto rivelato oggi da Il manifesto, un documento firmato dalle associazioni imprenditoriali in cui si avanzano cambiamenti alla legge, che il ministro del Welfare Sacconi, a poche ore dalla vittoria elettorale di aprile, già faceva sapere di voler modificare. Sanzioni più leggere, dal punto di vista amministrativo-pecuniario e penale, perché l'impianto sanzonatorio è ritenuto "oltremodo repressivo"; l'esclusione delle Pmi dall'applicazione di sanzioni pecuniarie "incompatibili con la vita di una piccola e media impresa"; sospensione dall'attività da parte dell'azienda solo in casi di "incombente pericolo"; introduzione della "presunzione di conformità alle norme di prevenzione" per le realtà che adottano norme tecniche e buone prassi, cioè carta bianca agli imprenditori; più spazio agli enti bilaterali; applicabilità della legge non a tutti i lavoratori, come prevede il Testo unico, bensì esclusione "di lavoratori somministrati e a tempo determinato"; cancellazione della responsabilità del datore di lavoro su tutta la catena degli appalti, eccezion fatta per quelli "di una certa consistenza"; impossibilità che siano presenti rappresentanti per la sicurezza insieme agli rsu. E' questo quello che propongono al governo Confindustria&Co. ed è questo ciò che esso si appresta, zelantemente, ad eseguire: l'azzeramento della legge. Perchè le lacrime sono tollerate a ridosso della tragedia, ma poi diventano soltanto altri "lacci e lacciuli" per il mercato che, si sà, deve produrre ad ogni costo, ad ogni prezzo, ad ogni morte.

venerdì 5 dicembre 2008

Usciamo dal vuoto cosmico

Rossana Rossanda, su il Manifesto di qualche giorno fa, ha scritto: "Le soggettività di una sinistra progressista e di classe si dibattono nella difficoltà di trovare una qualche sintesi, ma in attesa che si decidano lo spostamento dei rapporti di forze è univoco e brutale. Neanche la crisi più forte del capitalismo dopo il 1929 riesce a intaccarne l'egemonia".

E' una fotografia impietosa della situazione in cui versa la sinistra nel nostro paese. Sconfitti elettoralmente, i partiti rimasti alla sinistra del PD sembrano incapaci di imboccare in modo strategico un percorso unitario. L'Arcobaleno era una proposta insincera, tattica e, soprattutto, pilotata da un ceto politico ispirato più alla conservazione che al rinnovamento.
Dalle lacerazioni della sconfitta sono emerse due strategie distinte: quella "identitaria" che ha vinto i congressi di Rifondazione e del PdCI e quella "unitaria" che ha raccolto quanti considerano "giusta" l'intuizione della Sinistra Arcobaleno, ma vogliono darle una prospettiva strategica ed un percorso partecipato per evitare gli errori che hanno sancito la fine prematura di quell'esperienza.
Non mi voglio occupare della prima strategia, che ho combattuto nel congresso del mio partito, e che considero una facile scorciatoia, una fuga dalle responsabilità. Mi concentrerò, invece, sul tortuoso percorso della sinistra unitaria che rischia di avvitarsi su stesso.

Le tesi, le citazioni, i distinguo che stanno caratterizzando il dibattito in corso sono "insostenibili". Uso questo termine non con una connotazione soggettiva di critica, che pure esiste, ma nell'accezione che viene dal pensiero ecologista: di una condizione che non può essere mantenuta a lungo perché richiede un uso delle risorse eccessivo rispetto a quelle disponibili.
Siamo alla paradossale situazione in cui le defaticanti discussioni tra i diversi tavoli, fra le varie rappresentanze delle forze politiche, dei movimenti, delle realtà sociali, mettono in scena una commedia dell'incomunicabilità. Ci si interroga su questioni, anche rilevanti, ma in una condizione ambientale che, sulla base della mia esperienza di astronauta, trovo assai simile a quella dei veicoli spaziali, dove un ristretto gruppo di individui opera in "assenza di peso" e nel "vuoto cosmico".

In "assenza di peso" perché, oggi, non c'è in campo una forza di sinistra capace di pesare nei processi in atto nel paese. Dalla protesta degli studenti alla lotta al carovita, dalla battaglia contro il precariato alla difesa dei posti di lavoro, la sinistra è impotente e frammentata. C'è bisogno di un soggetto politico riconoscibile, che sia presente a tutto campo, sia nelle sfide elettorali che nelle battaglie in atto nel paese.

Nel "vuoto cosmico" perché il dibattito è tutto interno agli addetti ai lavori e non raggiunge la società. Come un'onda sonora nel vuoto le nostre discussioni non si propagano fuori dei tavoli delle riunioni. Eppure, in tutta Italia, le manifestazioni unitarie registrano una partecipazione appassionata di migliaia di uomini e donne, anche di quelli che, da tempo, non erano più presenti alle iniziative politiche dei partiti tradizionali.
Dal nostro popolo ci viene uno struggente invito a continuare ad andare avanti, rapidamente, in questo processo unitario. Dobbiamo ascoltarlo, dobbiamo uscire dal "vuoto cosmico" e cominciare a comunicare con loro. Occorre andare avanti speditamente per dar vita al nuovo soggetto politico della sinistra. Ne abbiamo bisogno, per sentirci di nuovo militanti, per smettere di appartenere a sigle diverse, in concorrenza una contro l'altra, e per condividere, insieme, un progetto di cambiamento di questa società. Spero che la manifestazione del 13 Dicembre possa dare un grande e definitivo segnale in questo senso.

*Europarlamentare Pdci, Ass. Unire la Sinistra

giovedì 4 dicembre 2008

Il Socialismo europeo è da sempre la casa di Sd

di Pasqualina Napoletano*

Mentre il Partito Democratico si dibatte con i problemi della sua collocazione europea, per Sinistra Democratica da questo punto di vista i problemi sono molto più semplici.
Non siamo un partito e, come i nostri iscritti e simpatizzanti sanno, questa è stata una scelta consapevolmente rivendicata.
"Non c'è il bisogno in Italia di un ennesimo partitino della sinistra" rispendevamo a chi ci rimproverava la vocazione scissionista della sinistra.
Il nostro obiettivo, rivelatosi molto più difficile del previsto, è quello di ricostruire in Italia una sinistra credibile nei suoi riferimenti ideologici, morali e culturali; efficace nella sua capacità di incidere sulla realtà; utile a tante e a tanti a cominciare da chi lavora, ma non solo.
Questa nostra caratteristica fa sì che non dobbiamo firmare il "Manifesto socialista europeo" come hanno fatto altri leader di partito, ed un po' improvvidamente Piero Fassino.
Anche perché, purtroppo, i partiti europei, compreso quello socialista, altro non sono che la sommatoria di partiti nazionali, cosa che vorremmo cambiare in favore di soggetti veramente federalisti con legittimazione propria.
Detto questo, gli eletti al Parlamento Europeo di Sinistra Democratica sono e resteranno nel gruppo socialista, e su questo non vi è alcun dubbio.
Non solo siamo nel gruppo europeo, ma abbiamo contribuito a dirigerlo, io come vicepresidente responsabile per la politica estera, Claudio Fava come coordinatore della commissione "Libertà pubbliche", per non parlare del prestigio personale e politico di cui gode Giovanni Berlinguer in seno al Gruppo.
Per questa via abbiamo contribuito all'elaborazione del Manifesto, anche perché il Gruppo è l'unico soggetto oltre ai partiti nazionali che ha voce in capitolo, nel senso di poter presentare emendamenti.
Io stessa ne ho presentati e molti sono stati accolti.
Non mi appassiona la polemica attorno all'appartenenza europea del PD, è come maramaldeggiare su una questione che avevamo vista irrisolta fin dalla sua nascita e foriera di problemi e tensioni che puntualmente sono esplosi, insieme a tanti altri elementi che fanno parlare i commentatori di vera e propria crisi del Partito Democratico.
Tornando al Manifesto, esso sarà un punto di riferimento per la nostra campagna elettorale europea, anche se in alcuni punti lo avremmo preferito più netto, questo perché, purtroppo, lo statuto del partito europeo prevede quella unanimità che tanto abbiamo rimproverato ai governi e che quindi costringe alla pratica defatigante della ricerca del minimo comune denominatore.
La storia però non finisce qui, spero che l'impegno europeista della sinistra italiana possa contribuire a migliorare e qualificare anche la vita politica europea.
Un piccolo successo però lo abbiamo ottenuto, e voglio segnalarlo perché, avere sostenuto che una quota di iscritti potesse direttamente riferirsi al Partito Socialista Europeo ha portato alla presenza di delegati a Madrid, tra cui i nostri, che non sono stati inviati dai partiti nazionali. Essi costituiscono un primo nucleo di un vero partito a dimensione europea. Buon lavoro!
*Vice-Presidente del Gruppo Socialista al Parlamento Europeo